sabato 8 dicembre 2012

Innocent or innocent enough to say “I did what I did”

Ovvero di quando  diedi l'addio ma al contempo profetizzai il mio ritorno come nemmeno Nostro Signore

Questa è più una “comunicazione di servizio” che un post.
Come avrete già capito, cari miei sporadici lettori, il blog chiude. Almeno per il momento, in futuro si vedrà.
Avevo detto che sarebbe avanti finché ce ne sarebbe stato bisogno, e così è stato.
Magari tra due settimane sarò di nuovo qui a scrivere.

Ma c’è un ma.
I più masochisti di voi infatti potranno continuare a leggermi. Per la verità, potranno anche leggermi su una piattaforma decisamente più seria di questo blog aggiornato saltuariamente.
Da qualche tempo infatti collaboro, un vero “collaboratore esterno” con un piccolo ma interessantissimo progetto, “Il superstite”.
Potrete leggere alcune piccole recensioni musicali infarcite di altrettanto piccoli racconti semi-autobiografici, in effetti non dissimili da quanto ho sempre scritto qui.

Per farvi un’idea potete leggere il mio primo articolo qui

Tuttavia, non posso non invitarvi a dare un’occhiata al sito, dove sicuramente troverete cose assai più interessanti dei miei deliri para-musicofili. Buona lettura.

listening: Unto Caesar - Dirty Projectors

domenica 22 luglio 2012

If you are walking in circles you’ll find yourself back at the start


 In cui vi racconto un pochino cosa succede e molto che cosa penso, come al solito.

“Secondo me dovresti metterti a cercare un ragazzo… Cosa aspetti?”
“Beh, arriverà il momento giusto, prima o poi.”


Ebbene no, questo blog non è stato prematuramente pensionato. Sono di nuovo qui ad ammorbarvi con tutte le mie riflessioni prive di ogni filo logico, le mie vicende impastate con i testi (e le musiche, anche!) di canzoni vecchie e nuove, così ben rimescolate che alla fine nemmeno io riesco più a capire dove finisca la mia vita e dove inizi quella di qualcun altro!

La sessione d’esami che tutti temevamo alla fine è arrivata, portando con sé interminabili giornate inchiodati alla scrivania, attacchi parossistici di yoga senza un perché, lunghe passeggiate montane al tramonto, in cerca di un panorama abbastanza vasto ed immobile da convincermi che la mia vita non è altro che un puntino tremendamente insignificante e fugace in un modo tanto, tanto grande e tanto, tanto vecchio. Per dirla tutta, la mia sessione non è finita proprio per un cazzo, ma faccio finta di non avere un esame a un tiro di schioppo e mi ritrovo qui a scrivere scempiaggini.

Negli ultimi tempi però non è stato un così grande mortorio, dopotutto. Per mia fortuna, per quanto mi sforzi, non riesco proprio a dedicarmi completamente alle cose che dovrei fare e in qualche modo mi ritrovo spesso a fare quello che non dovrei fare. Così l’ho trovato, il tempo per girare di notte in bicicletta per Borgo Roma e la ZAI, dopo serate a base di rooibos caldo e sigarette, sulle note tiepide dei Real Estate ("I don't know who's behind the wheel, sometimes I feel like I don't know the deal"), sospinto dal venticello notturno che a giugno accarezza la cima del Cupolone dei Magazzini Generali [Sì, ho una passione quasi malata per questa zona di Verona, perdonatemi]. Per non parlare poi di quei maledetti uccellini che alle due del mattino cantano in modo ossessivo, facendomi venire in mente per qualche istante un sospettoso e disperato Aidan Moffat di alcuni anni fa.
Forse dovrei anche scrivere un post sul concerto dei Flaming Lips e i loro palloncini giganti? Mah, credo che alla fine racconterei le solite tre cose che infestano la rete da lustri, quindi passo.

Nelle ultime settimane ho rivisto alcune persone che non vedevo da molto tempo. Di quegli incontri non esattamente inattesi, ma sicuramente sempre un po’ emozionanti. E così mi sono fatto raccontare delle loro esperienze in realtà diverse da quella italiana, o anche semplicemente differenti da quella della nostra piccola città. Man mano che i racconti proseguivano, tra i particolari divertenti e gli aneddoti iniziava a farsi strada un’ombra, l’inquietante profilo di quella domanda che non avevo mai considerato prima di queste chiacchierate, ma che in quei rispettivi momenti si faceva regolarmente sempre più chiara e nitida: sarebbe arrivata, e, puntualmente, mi avrebbe colto impreparato.
“E tu? Cosa fai?”

Eh, già. E io? Cosa faccio? Non so mai cosa rispondere, a questa limpida ma intricatissima domanda. Perché nessuno mi chiede mai a cosa sto pensando? Forse saprei rispondere meglio. La verità è che adesso sto facendo tanti programmi, tantissimi. Alcuni che si escludono a vicenda. Ma chissene!, fintanto che progetto non dovrò mai scontrarmi con l’evidenza lampante dell’irrealizzabilità dei miei progetti.
Ed ogni volta quella domanda, quel “cosa fai?”, mi catapulta in mezzo a un deserto, sotto un sole ustionante, con una borraccia colma d’acqua ormai calda ed una mappa mal abbozzata ma al contempo troppo piena di indicazioni frivole. E so che se non ne uscirò in fretta, finirà che inizierò a girare intorno, finirà che non avrò più idea di dove mi trovo, finirà che tutto quello che potrò fare sarà fare altri progetti, farmi venire altre idee, altri pensieri.
Finirà che mi troverò sempre al punto di inizio.

Il problema è che, onestamente, non lo so cosa faccio. Ma, se volete, posso annoiarvi per ore con quello che potrei fare, con i miei giri in tondo.

“Il momento giusto? I momenti passano in continuazione…”
“Hum, sì… Ci penserò”


listening: Love’s Dart – Django Django

domenica 27 maggio 2012

You say the things you love are the things you never had, and when you hold them they pass through your hands like sand


In cui parlo di infanzia e amicizia, di mostri e affittuarie un po’ zoccole. Ma non di Paul Giamatti.

“La cosa curiosa è che i gabbiani mangiano i piccioni”
“Beh, dai, alla fine i piccioni sono le mucche dei gabbiani, no?”


Sono ancora giorni strani questi in cui mescolo le mie ansie accademiche con le mie immancabili ansie esistenziali, in cui ascolto gli Allo Darlin’ come se non ci fosse un domani e immagino che i corridoi degli istituti biologici e della facoltà di scienze siano prati fioriti e non distese di persone. Sempre le solite persone.
Poi, la notte, guardo film o leggo romanzi. E visto che durante il giorno le mie relazioni sono quasi esclusivamente deputate allo studio o comunque a questioni universitarie (come riesce la sessione d’esami a renderci così inumani?), ho delegato al cinema o alla letteratura quello che momentaneamente la mia routine non può darmi: il mio arricchimento emotivo, la mia dose quotidiana di conversazioni profonde, di gangster italoamericani, di affittuarie che si fanno pagare con favori sessuali, di zombie e di alticce e sdolcinate passeggiate a due nel cuore della notte.
Potrebbe anche essere l’occasione per parlare di Paul Giamatti. Magari in futuro.

Sono giorni davvero strani, questi in cui penso a come le cose siano cambiate negli anni, e come mi sembra che molti dei miei punti di riferimento siano progressivamente scivolati via, oltre un ipotetico orizzonte. È proprio vero che, prima o poi, si prendono delle strade divergenti? Il lieto fine esiste sul serio solo nel cinema, nei romanzi che leggo nottetempo? In questi giorni tremendamente strani me lo sono chiesto molte volte, camminando attorno al tavolo di quella vecchia cucina, camminando per le umide vie della periferia, camminando a notte fonda su strade che ho percorso innumerevoli volte nella mia infanzia. Adesso, tuttavia, quei ricordi mi sembrano tutti così distanti, rievocano periodi della mia vita ormai morti e sepolti, che, saltuariamente disseppelliti, sembrano camminare senza vita in una specie di vacua cerimonia, per poi tornare strisciando nel sottosuolo.
Forse è proprio così, certe cose sono troppo speciali per essere vere, stanno in piedi solo in quel mondo semplice e chiaro, vagamente infantile, popolato da affascinanti zombie e delinquenti mangia-cervelli. O qualcosa di simile.

Come è potuto succedere? Continuo a pensare a quando vivevamo praticamente in simbiosi, quando tutto il resto aveva un significato solo in funzione a noi, e parlavamo una specie di lingua tutta nostra, fatta di riferimenti del tutto esclusivi, inaccessibili al povero, ignaro ascoltatore alle nostre deliranti conversazioni. Poi, relativamente all’improvviso, tutto è cambiato. “La vita è così”, dicono, ma io non l’ho mai digerita, quest’espressione. Perché “la vita” deve sempre essere la versione un po’ più schifosa, la versione imperfetta delle cose belle? Passiamo tutta la nostra infanzia a prepararci un mondo illusorio e poi -sorpresa!- la vita vera è solo un susseguirsi mediocre di aspettative, di delusioni e poi di nuove aspettative?
E mi ritrovo a pensare che forse non potrò mai perdonarvelo, di aver tradito le mie, di aspettative. Così come non potrò mai perdonarmelo, di avervi permesso di farlo, di aver contribuito a trasformare tutto in questa versione odiosamente imperfetta delle cose belle.

Quando smetto di girare attorno al tavolo, mi siedo sul mio letto. Sul mio comodino ci sono delle foto che ho scattato con voi, pochi anni fa. In un primo momento non nego un po’ di rancore, un briciolo di risentimento di fronte alle vostre maledettissime, sorridenti facce. Cosa cazzo c’è da ridere? Non vi rendete conto, Noi di pochi anni fa, di come avete mandato tutto a farsi fottere?
Vi osservo per un po’. I pensieri si affollano, i ricordi che condivido con voi mi fanno sorridere (anzi, alcuni fanno decisamente ridere), e all’improvviso il mio rancore si affievolisce, e all’improvviso capisco che quella che sto provando non è affatto rabbia, ma nostalgia. Per la miseria, quanto mi mancate!

Ed è chiaro che probabilmente non verremo mai mangiati dagli zombie, probabilmente non saremo mai fatti a pezzi e chiusi nel baule di una macchina, né faremo mai a pezzi qualcuno e lo chiuderemo nel baule di una macchina (e non potete sapere quanto questo mi dispiaccia). Forse non faremo nemmeno mai un lungo viaggio assieme, in cui matureremo e impareremo cose molto importanti sulla vita in generale, sulle relazioni con le altre persone, cazzi e mazzi.
Sicuramente, tuttavia, siete la cosa più simile a quel mondo perfetto, semplice e vagamente infantile che continuo ad avere in testa.

Listening: Capricornia – Allo Darlin’



domenica 29 aprile 2012

Nothing makes me want to disappear as when someone opens their mouth


In cui finalmente riesco a scrivere qualcosa che non mi faccia sembrare tremendamente malinconico. Credo.

Ho un'amica che abita a Berlino. O meglio, ne ho più d'una, ma questa in particolare si chiama Giulia. Giulia studia antropologia ed ha l'aria della saccente, ma la cosa le si addice perché effettivamente sa un sacco di cose ed è una delle persone più brave ad argomentare che io conosca (e, quanto non è in grado di farlo, può sempre fare affidamento su una certa dose di sagacia). Giulia è anche quella che si definisce una ethnonazi, quindi spesso mi capita di parlare con lei dell'importanza del modo in cui ci si esprime, o comunque di quante volte diciamo inavvertitamente cose in grado di far male agli altri, di discriminare.


É stato proprio dopo una di queste conversazioni che mi è tornata in mente una cosa simpatica, ma eloquente, accaduta alcuni anni fa. Appartiene a una fase diversa della mia vita, così lontana che adesso a raccontarla mi sembra di parlare di qualcosa che mi è stato a mia volta raccontato, una di quelle storie che nello stereotipo iniziano con “mio cugino...” e che a metà non ricordi più come va avanti ed inizi a dire cazzate e tutti perdono interesse tranne uno che alla fine però rivela di non aver capito niente.
Comunque, questa storia parla di una specie di coming out e di come qualcosa di scherzoso, anche simpatico, possa rendere tutto più complicato.
Cercando di riassumere un po' il contesto, era un periodo piuttosto incasinato della mia vita (ebbene sì, ero ancora più adolescente), in cui mi interrogavo sulla mia sessualità e non riuscivo decisamente a venirne a capo. Così, racimolato tutto il mio coraggio, avevo deciso che avrei parlato con il cuore in mano, come ogni adolescente che si rispetti, ad una persona che all'epoca pensavo avrebbe in qualche modo potuto aiutarmi. Ricordo di aver scavato solchi profondi, camminando istericamente avanti e indietro sotto a quell'albero, dove ci eravamo dati appuntamento. Ricordo anche che mi ero preparato discorsi intricati e intrisi di autentico pathos e lunghe e ridicole perifrasi costruite per non dover utilizzare “la parola che inizia con la g”, pur essendo abbastanza consapevole che non avrei saputo recitarli a dovere, al momento opportuno. Chi ci è passato conosce benissimo queste sensazioni.

Il mio amico era arrivato poco dopo, con una bicicletta da donna (il motivo, sinceramente, non lo ricordo, e la cosa non mi aveva particolarmente colpito). Era (e credo che lo sia ancora) una persona piuttosto dedita allo humor (anche quello facile facile, come vedrete), ed, avvicinandosi, ignaro della piccola rivoluzione armata che stava avendo luogo nel mio stomaco, aveva esclamato, facendo cenno alla bicicletta: “Non è come pensi, non sono mica diventato frocio!”.
Tutti gli omini che stavano facendo la lotta nelle mie viscere, improvvisamente, avevano smesso di fare qualsiasi cosa. A posteriori, credo che fondamentalmente avrebbero voluto ridere di gusto, ma che al contempo trovassero la mia situazione così ironicamente disperata da non trovare il coraggio di farlo.
Quella che avrebbe dovuto essere una chiacchierata di mezz'ora si complicò decisamente, a causa di quella valanga di mattoni precipitati sulla mia già precaria condizione psicologica, e solo in un paio di ore riuscii a parlare chiaramente di quello di cui mi premeva discutere.
Non riesco a ricordare se parlare poi mi fosse effettivamente servito, la storia che mi hanno raccontato ha un finale molto confuso e probabilmente vi annoiereste prima della fine. O non capireste.

Il mio aneddoto è sul cretino andante, ne sono consapevole, ma potrebbe perlomeno essere un simpatico esempio, un promemoria per aiutarmi a ricordare che quello che dico, anche (e soprattutto) senza dare troppo peso alle parole, può essere fonte di forti difficoltà, fino anche a vere e propri disagi, per le persone con cui comunico, consapevolmente o meno.

Ora, per concludere provate a immaginare quanto ho faticato per non inserire la solita citazione di Nanni Moretti.

[Giulia ha un blog, Lulliberlin, che, a mio avviso, merita di essere letto.]

listening: Ghost ship in a storm - Jim O'Rourke

domenica 22 aprile 2012

Questa città inutilmente bella, questa città zitella

In cui mi compiaccio di qualcosa di cui non dovrei assolutamente compiacermi

E così siamo andati a bere qualcosa nel solito posto, più o meno con la solita gente. Le luci gialline di Veronetta erano sempre le solite luci gialline, l’odore di pioggia era lo stesso odore di pioggia che per diversi inverni ha riempito le mie serate con Anita.
La serata è trascorsa piacevolmente, non c’erano grandi aspettative e, pertanto, non sono state tradite. Due chiacchiere, due Ichnusa, due orette tranquille.
Poi, mezz’ora prima dell’orario di chiusura, era arrivato quel ragazzo che, un po’ spavaldo e un po’ timido, ci aveva chiesto se poteva sedere con noi, per un po’. Era vagamente ubriaco, ma il suo tentativo di sembrare sobrio ci aveva inteneriti e, comunque, non siamo certo dei cafoni. Lo avevamo invitato a sedersi al nostro tavolo.
Dopo qualche istante di imbarazzo, la conversazione era prontamente iniziata e si era parlato di Berlino, della Finlandia, di Bristol e di Cardiff, di Banksy e di Blu, di Erasmus e di progetti  più o meno vaghi per un futuro altrettanto vago.
Poi era giunto il momento di andar via. Dopo un mio improrogabile salto in bagno, lieti ci eravamo salutati, prima di tornare a casa

 
Stavamo camminando nell’aria umidiccia della sera, quando Silvia mi mise al corrente del fatto che, mentre io ero al bagno, il ragazzo l’aveva ringraziata dicendole che eravamo stati gentili con lui, e che in altre situazioni analoghe era stato allontanato in malo modo. In un primo momento mi aveva fatto piacere venir ringraziato, mi aveva fatto sentire una buona persona.
Un istante dopo, mi ero incupito. Ringraziare delle persone per averti permesso di parlare con loro? Ma dove viviamo?
A volte non riesco a non generalizzare, a non pensare che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo posto.

                                                                                                                
listening: Respinti all’uscio – Offlaga Disco Pax

venerdì 30 marzo 2012

Enter in first light of the morning echoes the song in my heart

In cui volevo scrivere di musica ma poi mi sono accorto che non ne avevo così voglia. E così ho scritto una specie di lettera a più persone contemporaneamente.

Lo scorso weekend Verona è sembrata una città vera. Non scherzo: c’erano feste danzanti per l’arrivo della primavera, concerti da panico a Interzona, aperitivi a go-go, sudamericani che cantavano a caso nei campi, inaugurazioni di gallerie d’arte, cene a base di farro e asparagi. Di tutto e di più, insomma.
Ho già provato a raccontare uno per uno i singoli eventi, ma mi sono in fretta reso conto che la scrittura diventava progressivamente una cronaca noiosa di molti concerti decisamente molto più belli di quanto non riuscissi a farli sembrare con le mie parole. E poi c’è l’effetto primavera. Come cos’è l’effetto primavera?
Non ti succede mai in questo periodo dell’anno di avere dei deficit dell’attenzione spaventosi? Di mescolare in modo delirante esperienze passate e presenti, deprimenti ed esaltanti? Non ti ritrovi a faticare nell’intento di separare quello che ti succede dal significato che gli attribuisci?
Ah, non ti succede mai. Beh, a me sì.

Quella serata senza senso tra le strade di Veronetta e le poltrone da barbiere del Malacarne, in compagnia di Charlie Chaplin e Charlie Brown. Poi sedersi alticci al Castello, semplicemente per la voglia di guardare la città nel pieno della notte. Non ti sembrava tutto così familiare, così nuovo?

Abbiamo camminato per Borgo Roma col cappuccio sulla testa, fissandoci i piedi. Gli Esperanza che iniziano a suonare e ci sembrano così superati, ma non desistiamo e loro ci mostrano come sanno giocare coi generi musicali più disparati, con suoni che sembrano arrivare da ogni parte del mondo, ma che riescono comunque a fare amicizia tra loro, e a fare amicizia con noi. Poi suona The Field e te ne vai con i tuoi amici, e io resto lì e mi lascio cullare dai ritmi ripetitivi e dai suoni ovattati, mi sento bene e sorrido notando che non ci sono molte persone sobrie attorno a me.

“Oddio, mi sembra di essere a Berlino!”, mi dici entusiasta. So che stai esagerando, ma c’è un ragazzo che fissa immobile The Field mentre attorno a lui la gente balla, e tutto è davvero perfetto.
Ancora mezzo intontito esco da Interzona e con la mia bicicletta verde menta mi dirigo verso casa, annusando gli odori primaverili che si sono infiltrati tra le tonnellate di cemento e ferro dei Magazzini Generali.

Non sembrano nemmeno gli stessi, gli odori primaverili che annuso mentre andiamo a lezione di yoga. Siamo stanchi entrambi eppure troviamo le forze per parlare, o almeno per lamentarci della scelta infelice del corso del sabato mattina. “No, davvero, io dal mese prossimo passo al martedì sera”. Ma credo che in realtà ti piaccia tutto così com’è, perché sono sei mesi che lo ripeti, ogni volta. E quel silenzio portentoso? Non te l’ho mai chiesto, ma tu l’hai mai sentito un silenzio così profondo?

Sei arrivata con mezz’ora di ritardo, incolpando Giogi. Poi andiamo a prendere anche lui, che ovviamente è in ritardo. E a sua volta incolpa te.
“Questo posto è dannatamente bello, non l’avevo mai visto di giorno!”. Ti spingiamo letteralmente fino alla Casetta Lou Fai, tu saresti rimasta tutto il giorno a guardare le viti e le colline, ascoltando la musica arrivare flebile da lontano.
Mentre saluto, sinceramente felice, gente che non vedevo da molto tempo (alcune persone della mia vita esistono solo alla Casetta, non mi spiego il perché), mi accorgo che tutti e tre ci sentiamo un po’ pesci fuor d’acqua. L’organizzazione è impeccabile, la gente è tantissima, la musica è ottima. Eppure ci sembra un posto diverso, mentre ci sediamo in un angolo, sorseggiando birra. Qui ci abbiamo passato delle serate stupende, al liceo. Ci ho pure festeggiato il mio diciottesimo compleanno. Era una specie di grande famiglia un po’ sgangherata ma molto, molto accogliente. Ora è così… diverso.

Ti costringiamo a restare ancora un po’ con noi. Non ci metti molto a cedere e questo mi lascia sperare che un po’ di voglia di restare in fondo ce l’avessi. Non è stupendo come un bicchierino di rosso e un panino col salame possano rendere le cose interessanti? Poi te ne vai via e facciamo un secondo aperitivo, più che altro una merenda a ora di cena: tè chimicissimo e gocciole chimicissime. Poi ci ricordiamo dell’esistenza della cena e deviamo verso casa mia. È da mesi (o anni?) che Milvia e mio fratello non si vedono, e ora si raccontano un po’ di tutto: sto pensando che tempo fa avessero molte più cose in comune, che poi però le cose succedono e sono imprevedibili. [Dopo un paio di ore assieme mi sarei trovato a pensare che forse hanno ora più cose in comune di quante ne abbiano mai avute.]
“Ma dai, c’è Guida Galattica per Autostoppisti in tivù”. Ma poi, pensandoci bene, non è ‘sto granché.

Stasera a Interzona c’è un sacco di gente che conosco. La cosa mi fa ben sperare, di solito tutta la gente a cui segnalo concerti risponde con “Dai, figata!”, ma poi non viene mai nessuno. Stasera sembra diverso e anche tu sembri pensarla come me, no?
Sono ancora un po’ sbronzo dal pomeriggio, ma propongo lo stesso un Montenegro, poi un gin tonic: per gustare appieno gli Akron/Family, nella mia esperienza, non si può essere del tutto sobri/lucidi. Ci sono proprio tutti, anche la coppia sposata che più adoro sulla faccia della terra. Olli, come suo solito, mi aggiorna velocemente su tutti i suoi progetti musicali (tra parentesi: Spagetti Bolonnaise è sicuramente quello che più mi interessa). Poche persone riescono a farmi sentire stimato come fanno Olli e Angela, e credo che sia una delle cose che più mi piacciono di loro. Ci promettiamo di fare una cena o qualcosa di simile, “uno di questi giorni”. Spesso poi non facciamo niente, ma quando lo facciamo sono sempre serate che ricordo volentieri.

Gli Akron/Family iniziano a suonare, assieme a Kid Millions (Oneida). Sono uno dei miei gruppi preferiti e mi rendo conto di essere del tutto impreparato, psicologicamente. È inutile che stia qui a raccontarvi come è stato il concerto, deluderei sicuramente le mie aspettative. C’è tanta improvvisazione (come in ogni loro concerto, d’altronde) e questo scoccia profondamente alcuni ragazzi che si trovano nelle mie vicinanze. Però in questo momento non mi frega un cazzo della loro opinione, così mi allontano progressivamente e raggiungo il mio amico Piccoli. Lui mi nota e mi saluta con uno sguardo e una pacca sulla spalla. Spero che abbia capito quanto gli abbia voluto bene per non aver iniziato a parlare. Il concerto dura tantissimo, io sono davvero molto, molto coinvolto e l’effetto primavera mi colpisce come non mai. Non credo riuscirei a ricordare nemmeno la scaletta, mi rimangono solo scolpiti in testa il finale dolcissimo di “So it goes” e le profonde vibrazioni di “Another Sky”, mentre ho gli occhi chiusi.
Però mi ricordo perfettamente che Miles e Seth sono bellissimi, questo posso confermarlo.
“Michi, credo di essermi innamorata”. “Anche io”.

Camminiamo in mezzo a quel quadrato verde nel bel mezzo del nulla. Annuso ancora l’aria, mi guardo i piedi. Sono le cose che ho fatto di più in questi giorni così belli. Della gente suona la chitarra in mezzo al prato, cantano, sembrano davvero tutti molto felici. Noi siamo seduti su una panchina e ci godiamo il sole (o almeno, io ci sto provando), cerchiamo di capire se veramente la lingua in cui stanno cantando e spagnolo.
“Sai, a volte penso che preferisco vivere così, vedendo tutto complicato, in balia dei miei entusiasmi e delle mie angosce”. Il vero problema è che non mi ricordo se questa frase l’hai detta tu, o se l’ho detta io. Effettivamente, non mi ricordo nemmeno se qualcuno si sia preso la briga di dirla. L’effetto primavera.

[Oggi abbiamo passato tanto tempo assieme. Questa piccola città mi è sembrata un po’ meno piccola: c’era caldo, la gente sedeva sui gradini, sotto il porticato, bevendo alcolici. Il sole stava tramontando e mi sembrava di essere entrato in una di quelle tue foto di tramonti, in cui c’è sempre un fondo di malinconia, ma anche tante, tante cose. Quando te ne sarai andata, per un po’ tutto sembrerà tremendamente strano.]

                                                                                                             listening: Another Sky – Akron/Family; Shoes – Akron/Family

domenica 11 marzo 2012

Sempre in stazione a guardare i treni veloci partire, i treni veloci passare


“Avrei proprio bisogno di un viaggio, adesso”
“Il problema dei viaggi è che finiscono. Non riesco mai a prepararmi psicologicamente al fatto che poi tutto tornerà come prima”
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“Questo è l’unico posto, in questa città, che raccoglie un certo tipo di persone. E tutti questi individui si creano aspettative su quello che accadrà. Così ci si trova tutti insieme, pieni di aspettative, e finisce che non accade proprio nulla”

Ieri sera c’era questo aperitivo/concerto, e io pensavo che mi sarei divertito, almeno un po’. Che avrei visto gente che non vedevo da diverso tempo, che mi avrebbe fatto bene lasciare per un po’ i miei pensieri, i miei studi, la mia casa.
E invece non sono andato. A volte non riesco a non percepire gli altri come un nemico, qualcuno di ostile, finendo per arroccarmi nelle mie solite relazioni sicure, le roccaforti emotive della mia vita.
Comunque, come vi dicevo, complice la stanchezza e quel senso di insofferenza che ogni tanto mi prende, non sono andato. E ho ripiegato su un film. Per la serata ho scelto “I sovversivi” dei fratelli Taviani.
Non ho intenzione di fare un commento al film, non ne avrei gli strumenti sufficienti. Fatto sta che il film mi ha fatto sentire un po’ meglio, mi ha fatto sentire a mio agio nella sua frammentarietà, nello smarrimento dei diversi personaggi, assorti nei propri problemi e nella propria confusione. Ho avvertito vicina al mio sentire la sovversione delle aspettative individuali e delle singole esistenze, i piccoli drammi della quotidianità, in grado di far cadere in secondo piano grandi eventi, che finiscono per fare da sfondo, paradossalmente, alle nostre piccole (ma ingombranti) vicende.

Al contempo non ha fatto che accrescere questa mia insofferenza.

Cosa c’è di più autolesionista del confrontarsi con persone che nemmeno esistono? Ti ritrovi completamente nelle loro esperienze e nel loro modo di vivere, ti sembra di aver capito qualcosa di nuovo e di importante. Poi però vai ad una festa, e c’è tanta gente che conosci e che senti tremendamente lontana da te. Ed in quel momento realizzi che il problema è che tu sei qui, e loro no.

Listening: Non era più lui - Lucio Dalla